Archivio del 26 Settembre 2007

Icone Pop

Mercoledì 26 Settembre 2007

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GUARDANDO OLTRE.
DAI SOLDATI DI TERRACOTTA ALLA BARBIE, I PUPAZZI DI PECHINO
di
 Philippe Daverio


Ordunque, la questione non è priva di complicate complicazioni. Da poco si sa che le bamboline Barbie fabbricate in Cina e dichiarate velenose a milioni di esemplari non sono tali per colpa dell’astuto fabbricante orientale, ma per via d’un criminale errore di progettazione americano. Il peccato è stato pubblicamente confessato dal vicepresidente della Mattel, la multinazionale del giocattolo. Che siano velenose anche le statuine di Mao e delle Guardie rosse, anch’esse prodotte a milioni di esemplari e esposte in questi giorni in una mostra collegata alla manifestazione «Mercante in Fiera» a Parma? La vernice di queste ultime è stata dichiarata innocua. L’ideologia no! «Mai dire Mao - Servire il Pop» ha generato attenzioni e

polemiche. Il presidente dei cinesi ha lasciato sul terreno con la sua trasformazione del Paese sessanta milioni di morti, quanto quelli che ha inesorabilmente mietuto la carestia del 1956. Ora i cinesi mangiano a crepapelle. La Cina nel 1949 come primo atto di espansione ha cancellato la teocrazia pacifica del Tibet e iniziato un percorso inarrestabile di distruzione dei più belli e commoventi monasteri di alta quota e del sistema ecologico perfetto che questi avevano preservato. Il Datai Lama è rifugiato all’estero da più di mezzo secolo. Auguriamogli la sorte del papato di Avignone e quindi il ritorno. La Cina ha in comune con gli Usa la passione non solo per la Barbie ma pure per l’annullamento della regola che fu data a Mosè sul Sinai
(«Non uccidere») e tutti e due gli Stati continuano a praticare la pena di morte, in Cina con numeri ben maggiori - ma si sa che i cinesi sono più numerosi.

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uno dei sei "personaggi in cerca di Mao" di Momò Calascibetta
Andy Warhol, che è l’artista sicuramente più creativo della stagione Pop americana, ha lasciato una serie di icone che testimonieranno nei secoli la cultura statunitense, e cioè le scatolette di brodo della Campbell, il ritratto di Marylin Monroe, il car crash (l’incidente automobilistico), la-sedia elettrica e - ovviamente - Mao Tse Tung.


La mostra di Parma mescola Pop e Mao secondo l’assunto della commedia antica: castigat rìdendo mores. Pone un obbligo di riflessione leggera che è tutt’altro che goliardica e, oggi che tutto sembra privo di valore poiché tutto appare equivalente, questo piccolo contributo di coscienza non è privo di senso.


Mille immagini dall’aspetto bonario che rivelano più che nasconderlo un dramma effettivo. E permettono di capire un po’ di più il gigante economico che si affaccia sullo scenario del globo. La Cina è faraonica da sempre, non ha mai dato, se non nella raffinata filosofia confuciana, peso all’individuo. È la specie che avanza, come le statuine esposte. È la specie che si identifica nel suo destino, sicché il comportamento di mezzo secolo fa ricalca quello di 22 secoli or sono, quando il primo imperatore della terra di mezzo fece bruciare i libri, confiscò le terre, rese obbligatoli i suoi scritti e si fece seppellire con le sue statuone, quelle che riproducevano i suoi soldati d’allora.

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Le statuine di Mao sono la combinazione fra l’esercito di terracotta e le statuette più gentili che nel XVIII secolo raffiguravano in porcellana i mandarini e i ragazzi sorridenti. Ciò che si vede è un cocktail fra imperatore, faraone, mandarini e sorrisi. Tutto in rosso, che non si sa se sia sangue o lacca. E gli artisti di oggi come i "sei personaggi in cerca di Mao" di Momò Calascibetta, ci hanno ricamato sopra, con ironia ma non con spensieratezza. Intanto se ne parla. È già bene così e l’indicazione del bar spiega molto: «La cuCina è vicina».