Il Mio Nome è Nessuno


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IL MiO NOME  E’ NESSUNO

 Ingremiomatris -L’ecole des Italiens -Museo Immaginario
Regione Piemonte -Provincia del Verbano Cusio Ossola -Citta’ di Domodossola

IL Mio Nome E’ Nessuno
incantamento,stupore e bellezza nell’arte dei semplici

Domodossola  Palazzo Silva  via G.Paletta
6 Luglio 21 settembre 2008

Esordisce il 5 luglio prossimo, a Domodossola, nella superba sede di Palazzo Silva, una mostra destinata a cambiare i confini dell’arte contemporanea. Si chiama !l mio nome è Nessuno, e possiede un sottotesto disarmante, esplicativo: Incantamento, stupore e bellezza nell’arte dei semplici.
Fino al 21 settembre si potrà assistere a una rassegna di pittori così detti naive, ribattezzati "semplici". La mostra si presenta anche, e con notevole decisione, come gesto perentorio, estetico e politico. Contrastando un’idea performativa e banalmente provocatoria dell’arte italiana degli ultimi decenni. Riscoprendo i valori del sogno rispetto a quelli del mercato, il desiderio in favore del glamour. Così questi artisti, "simili a spettri o a eroi delle favole, ci mostrano la fiamma sempiterna e primitiva dell’arte: il suo potere suggestivo, conturbante, mitologico. Ci sono gesti nostalgici,intimi, preziosi, per nulla omologati, di gente ai bordi della storia, fuori dal mondo, che proprio per questo conquista il perno del mondo, il suo più remoto segreto". la mostra è curata da Marcovinicio, ed è mediata da un catalogo programmatico con testi di Davide Brullo e di Silvia Pacassoni edito da Umberto Allemandi

Dio è morto, e con lui l’arte. Pressappoco è così.

Gli artisti si metrano in base a un criterio di vendita, sulla loro testa viene affibbiata una taglia che ne identifica il valore. Nulla discandaloso, per chi fa denari: l’arte è un prodotto di mercato.L’artista, cioè, da talento individuale è diventato una griffe, lo si compra perché qualcuno ci dice che comprarlo è un buon affare, perché farà fruttare al compratore di lì a qualche anno un lauto gruzzolo.Bizzarrie dell’epoca: l’arte non procura più un nutrimento spirituale,non evoca bellezza, ordine e senso. Simile a un qualsiasi altro prodotto "di consumo" – come un paio di scarpe, una borsetta particolare, un’automobile fiammante – vaga sull’onda anomala delle
"mode", e si muta da popolare in gioiello d’èlite. Non provoca il mito, ma asseconda la storia. Cioè: non è inevitabile, urgente,provocante, bensì accessoria, aleatoria, vacua. L’estetica, come direbbe il poeta premio Nobel Josif Brodskij, non fonda più l’etica dell’uomo e della storia, ma è schiava di pulsioni superficiali,destinate a svanire al primo battito di ciglia, al precoce passaggiostagionale delle rondini.

Dacché fare i guastafeste è un esercizio per molti versi facile e inutile, costruiamo qualcosa. Questa è una mostra scandalosa. L’esatto
opposto dell’alchimia che regge, ad esempio, la Biennale di Venezia.

Il mio nome è Nessuno è una mostra di "pittori della domenica". Di
artisti per lo più ignoti e ingenui, selvatici e nascosti, anonimi e
misteriosi. Per far risorgere l’arte bisogna azzerarla, rivelandone il
cuore, la polpa inalterabile e millenaria.

Dopo tutto, è sempre stato così. Naïve vuol dire incantamento, stupore, bellezza pura, netta, semplice. Già, è attraverso un gesto semplice e perentorio che intendiamo scompaginare la storia dell’arte, far impazzire la Borsadell’Arte. Oggi come ieri sono i segni problematici e primordiali a cambiare il tempo. Lo sapevano bene, per ripassare in memoria due nomi clamorosi, Paul Gauguin e Pablo Picasso, che studiarono alla corte dei naïve e dei reietti per ottenere il miracolo della semplicità, di una infantile, unica immediatezza. Così questi artisti occasionali,ispirati, per giunta illuminati, che vengono a noi nel mistero, simili a spettri o a eroi delle favole, ci mostrano la fiamma sempre eterna e primitiva dell’arte: il suo potere suggestivo, conturbante,mitologico.


 Ci sono gesti nostalgici, intimi, preziosi, per nullaomologati, di gente ai bordi della storia, fuori dal mondo, che proprio per questo conquista il perno del mondo, il suo più remoto segreto.

Il viaggio tra questi "nessuno", tra questi artisti perduti e ritrovati, sommersi e salvati, anticonformisti perché non condizionati da alcuna moda, antimoderni, è anche un periplo alle origini dell’arte. Nel nome, sempre, è il senso. Nessuno si nominò Odisseo scampando alla furia di Polifemo. Nessuno è una zattera, un’occasione per salvarsi dal mondo di chi vuole annullare l’arte, tacitarne il potenziale esplosivo, perennemente scandaloso. Con una truppa di "nessuno" si rifonda l’arte.


Perché gli artisti, quando vigorosi, come
Odisseo, sono curiosi e corsari, avventurieri e pirati. Comunque,
estremi, fino ai margini inesplorati della terra.



Orari: Da martedì a venerdì dalle 15 alle 19,
         sabato e domenica dalle 10 alle 12, dalle 15 alle 19
         Ingresso € 5. Info e prenotazioni:
         www.ingremiomatris.com  info@ingremiomatris.com
         Cell. +393357357840

Inaugurazione sabato 5 luglio ore 18,30   Teatro Galletti  p.zza Mercato  Domodossola

Catalogo:                 Umberto Allemandi & C Ita/Ingl. 168 pag.

Curatore:                  Marcovinicio

Testi di:                    Dott. Davide Brullo, Silvia Pacassoni

Fotografie di:             Antonio Maniscalco, Marco Bianchetti

Coordinamento di:      Massimo Fiumano’
 

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L’opera di Momò Calascibetta presente alla mostra" Il Mio Nome E’ Nessuno"
"Minuetto di una domatrice di coccodrilli nel salone degli specchi di Villa Palagonia"
disegno a matita cm.165 x 200 - 2002


Apologia di Mowgli, l’artista selvaggio
testo integrale presente nel catalogo della mostra
di
  Davide Brullo

Nessuno. Il mio nome è Nessuno. Così risponde Ulisse, l’ardito e l’astuto, alla domanda del Ciclope. Siamo nel libro nono dell’Odissea. Sappiamo come va a finire. Ulisse l’avventuriero acceca il Ciclope, il quale si lancia delirante per l’isola gridando ai compagni che Nessuno lo vuole uccidere. L’episodio, emblematico, si squarcia in un finale obliquo. Ulisse si salva, e con sé salva alcuni dei propri compagni, ma pecca di vanità. Quando svela il suo nome, in mare, già imbarcato e sulla via di casa, si slega l’incanto, principiano ulteriori, drammatiche peripezie. Dopo tutto, i confratelli – essenze mute, spettrali e senza volto – lo avevano avvisato: “Pazzo, perché vuoi provocare un selvaggio?”. Nel mondo del mostro, perciò del meraviglioso, si accede non soltanto mascherandosi, ma annullandosi. Si partecipa allo stupefacente svuotati di sé, in stato sonnambulo. L’Odissea, trapaniamolo in testa, è il libro del sogno e della meraviglia, degli incontri favolosi e delle imprese oniriche, impreviste. È la soffitta dove il bambino si ritira per inventare mondi consecutivi, suggellati e plausibili. A dispetto dell’Iliade, statuaria e immobile, per nulla romanzesca, il libro dell’ira luminosa e della guerra onniavvolgente. Eppure, è papale, Ulisse non è certo il prototipo dell’ingenuo. Quando affronta il mostro selvaggio, sottraendogli la vista e forse marchiando sulla sua fronte quel “terzo occhio”, usa uno stratagemma sottile – nel rovinare e perforare la bestia c’è una stordente assonanza con l’episodio di San Giorgio e il drago? Ulisse, in questo senso, è l’uomo che dirada le proprie ossessioni, le sconfigge, perché desidera la casa, la patria, la famiglia. In qualche modo, il prezzo che gli è richiesto per ottenere queste banali sicurezze terrestri è il sacrificio dei propri sogni. Ma Ulisse, bambino avido e totale, è l’uomo che rischia per il solo gusto di conoscere. Prima di abdicare ai propri sogni, prima di scavalcare le proprie fobie, vuole conquistarle, dominarle, divorarle. Chi gli ha ordinato di approdare nell’isola dei Ciclopi, chi gli ha chiesto di sfidare il mostro? Ulisse, il catalogatore dei sogni. L’impossibile, il rischioso e il tremendo, il mondo del sogno e dell’incubo, incarnato dal Ciclope, li può affrontare soltanto un signor “nessuno”. Solo Nessuno penetra l’origine simbolica, mostruosa, affascinante dell’uomo, e perciò dell’arte. Perché la conoscenza è un atto gratuito e irragionevole, e l’arte è un gesto di per sé infantile, fallimentare. Segno qualcosa su una tela, capitalizzando il mio destino, gettandolo oltre i secoli. Come il barbaglio di un astro, che ci giunge fiocinando la notte, ma che forse, in questo istante, non esiste più. Avvertiamo il fiato giallo e lucente di una cosa morta. L’arte di Nessuno non parla al mondo degli umani, dei viventi, ma a quello dei sogni. 

Il primitivo è la somma di due tensioni: l’ingenuità e la ferocia. Scartiamo subito il giardino edenico, profumato, superbo. L’uomo non è mai ingenuo, il male lo mina fin dalle origini. È ingenuo perché privo di storia, è semplice, manca di tridimensionalità, è un uomo bidimensionale. È feroce, in fondo, proprio perché ingenuo. In qualche modo, condizionato da strutture piuttosto nette, indiscutibili, quest’uomo vive la ferocia come uno dei criteri comuni di un’esistenza. Eppure, già laggiù, nell’alba del mondo, la vita è scissa, definitivamente. Al desiderio non corrisponde l’atto, perché bisogna rendere conto al clan, al sacerdote, al dio. Così, il cielo si colma di terrificanti moti astrali, la speranza in un tempo migliore, nuovo, spacca il cuore dell’uomo dei primordi. Non si vive ma si spera, non si agisce ma si compie un rito. In realtà, feroce e ingenuo, come può esserlo soltanto un dio geloso e vendicativo, perentorio e maresciallo, è il bambino. Il bambino, coerentemente, è semplice perfino nel male, è ingenuo. Odia il proprio compagno e ne desidera la morte. Nel 1954 William Golding pubblica il suo libro più alto e tremendo, Il signore delle mosche. In epoca di post-primitivismo, di implosa età dell’oro e delle favole dell’infanzia, uno scrittore dal possente impeto morale ci dice questa cosa: se un gruppo di bimbi capita su un isola deserta non fonda un asilo, ma un inferno. I bambini di Golding si riducono a semiselvaggi capaci delle violenze più estreme, ingenue e feroci (non è casuale che nel 1964 Golding pubblichi un romanzo, Uomini nudi, che unico nel suo genere, narra l’epopea di un clan dei primordi). Questo per dire che al primitivo, all’ingenuo, non corrisponde una innocenza dello spirito. Nel pennello e nella penna dell’artista ingenuo non vigila l’Adamo ricostruito, bensì l’Adamo caduto, con ancora i segni radicali della caduta, e la spina dorsale che scodinzola come una corda spessa, cruda. Semmai, l’innocenza – ristabilita, riequilibrata, frutto di studio e pratica matti e disperanti – è nello sguardo. Sgombro dalle celie e dalle menzogne moderne, dalla quadridimensione dei palazzi di cristallo, delle esposizioni da mercanti d’arte e di carne. Allora, sì, il pittore, quello attrezzato a puntino, decide con coscienza di appiattire le forme, tornare al segno primo e inciso, definitivo. Come a dire, non è più il tempo di giocare con l’arte, d’intrattenere il palato dei committenti, ma di centrare il marchio, singolo, indelebile, che cambierà il mondo, che resisterà per millenni. Proprio come il graffio sempiterno dell’ominide che ha raffigurato la mascella del sauro, il profilo dell’arco, il torso smembrato, cannibalizzato, del bue.

Eppure, il bambino-bestia esiste. Quello che ci è necessario per comprendere il tratto di questi ‘innocenti’ della domenica. I libri della giungla vengono pubblicati tra il 1894 e il 1895, negli anni in cui Rousseau il Doganiere è in piena folgore e si scoprono, inopinatamente, le grotte superbe dei nostri ancestrali antenati – nel 1869 un cacciatore svela l’ingresso di Altamira, proprio nel 1895 Rivière scoprì alcuni graffiti di rilievo nella grotta di La Mouthe, in Dordogna. Mowgli, il bambino cresciuto tra i lupi, denudato dal frac disneyano, è ingenuo e feroce. Ancor più, è vendicativo. Per altro, vive in una modernissima condizione di esilio. È poco più – o poco meno – di una fiera, e poco meno – o poco più – di un uomo. Né di qui né di là, come il pittore neoprimitivo, come l’ingenuo della domenica, che non appartiene ai club degli artisti da caccia alla volpe, né a quello dei cittadini comuni. Nessun animale riesce a sostenere lo sguardo inquisitorio, profondissimo, umano di Mowgli, eppure per il mondo degli uomini costui non è che uno stregone. Nel racconto, terrificante e cupo, da danza ebbra, La giungla alla riscossa, Mowgli guida l’elefante Hathi e tutte le bestie della foresta contro il villaggio degli uomini. I demoni eretti hanno fustigato Messua, la donna che ha ricoverato Mowgli, per questo debbono pagare. Mowgli, impietosamente, guida la riscossa della foresta finché “là dove meno di sei mesi prima si era arato, la Giungla ruggiva a tutta lena”. La piaga è biblica, e sul devastato non si ricostruirà più nulla. In quel racconto la pantera Bagheera celebra Mowgli, il dio bambino ingenuo e tremendo, il figlio del vento, astuto come un uomo ma feroce come una belva, verso cui nutrire un cauto, corretto terrore: “E tu saresti la creatura inerme in favore della quale ho interceduto presso il Branco, quando il mondo era giovane? Signore della Giungla, quando le forze mi abbandoneranno, intercedi per me… intercedi per Baloo… per tutti noi intercedi! Di fronte a te noi siamo cuccioli! Ramoscelli infranti sotto il piede! Cerbiatti che hanno perso mamma cerva!”.
Per André Malraux, scrittore piuttosto estremo, amante – e ladro gentiluomo – dell’arte estrema e primordiale, la questione stava in questi termini: “Il bambino artista è come Kim, che sognando conquista le città”. Ancora Kipling. Kim viene pubblicato nel 1901, e racconta, dickensianamente, le avventure di Kimball O’Hara, fanciullo inglese fattosi forte in India. Anche in questo caso, come in quello di Mowgli, un bambino sul confine. Astuto e polimorfico, proprio perché non appartiene ad alcuna gabbia. Sta comodamente tra gli indù e i cristiani, al braccio di un guru o di un maresciallo dell’esercito, le sue origini e il suo destino sono estremamente ambigue. Metto altri ceppi nel fuoco. Un anno dopo la comparsa da folletto e da istrione di Kim, nel 1902, barbaglia dalle fornite librerie d’Albione un volume di racconti. S’intitola Youth: A Narrative, and Two Other Stories, lo stampa l’editore Blackwood, porta marchiato un esergo che è quasi una dichiarazione d’intenti, fulminea e radicale (“Ma il Nano rispose: ‘No, qualcosa di umano è più caro per me che tutta la ricchezza del mondo’”, cavato da un racconto dei fratelli Grimm) ed è dedicato “To my Wife”. Lo scrittore, manco a rimarcarlo, è Joseph Conrad. Tra i tre racconti spicca, sulfureo, infernale, demoniaco, il celebre Heart of Darkness, compilato e compiuto qualche anno prima, nel 1899, cioè prima che Kim nascesse. In questo racconto, onirico e perfetto, non ci sono bambini ma due uomini, Marlow e Kurtz. Il primo, che narra la sua storia spettrale, sperimenta le tenebre dei primordi risalendo il fiume Congo. Ne è travolto, sbigottito, ma non smarrito. Il secondo – reso leggendario da Marlon Brando in Apocalypse Now – è il campione disumano perduto nella foresta vergine, in cui instaura un dominio basato sulla violenza e l’orrore. Per lo meno, ci pare. Già, perché Kurtz è un genio ambiguo. Di lui si sa tutto e nulla. Per alcuni è un ottimo capopopolo, per altri un farabutto. Per altri ancora è un sagace giornalista, oppure un grande musicista. Per la donna lontana era un uomo superbo, un amante perfetto. Non si sa con precisione dove sia nato e dove sia vissuto, Marlow ipotizza che l’intera Europa abbia congiurato per creare un simile satanasso. Dalla vigorosa possanza profetica. Sì, eppure, quando lo incontriamo, e di sfuggita, di sguincio, nel pieno della tragedia, Kurtz non ci lascia nulla se non la sigla del suo testamento, il flebile sussurro “The horror! The horror!”. Cosa fa tanto orrore? La morte, la giungla, la vita? È il delirio di un folle o il proverbio di un saggio?

Ci muoviamo sul crinale, in equilibrio sulle fauci del nulla. Mowgli, Kim, Kurtz. Non è forse simile il pittore privo di tecnica, d’industria, di mercato? Il pittore ingenuo non è tale per deficienza ma per eccesso di sapienza. Sceglie di tirarsi fuori dalla mischia, dal torbido agone. Non parlo espressamente di Picasso, di Matisse e di Derain, di Modigliani, di Paul Klee o di Emil Nolde. Costoro, artisti superbi, superiori, furono catturati dai primordi, dalle giungle assolute e dalle maschere tribali per gettare una falce in fronte all’arte moderna, quella dei club, anestetizzata, svilita. Dopo tutto, grandi artisti che prendono spunto da terre esotiche, dove il segno, primo e segnaletico, unico, risplende ancora incontaminato – almeno ai loro occhi ingenui – come un getto di lama. Parlo dei discepoli del “Doganiere”, o di chi lo ha preceduto. Pittori semplici e reietti, in esilio. Solitari, che non appartengono a nessuno se non a se stessi e al proprio pennello. Curiosi Kim, profetici Kurtz, avventati Mowgli che esplorano, prima di tutto, i primordi della propria anima. Scavandola fino all’osso più puro e duro, inossidabile. Che a volte terrorizza.

Il professionismo nell’arte non esiste, non è nemmeno plausibile. Eppure, nel mondo moderno vale la prospettiva opposta. Se un artista vale tot, vuol dire che vale davvero. I gradi, in sintesi, contano più del talento. Questo produce una riscossa drammatica, perché i gradi, infine, con uno sforzo minimo o maturo si ottengono sempre. Il grado, il valore di mercato annulla l’idea, basica, che l’arte sia un rischio, uno scandalo. Ma se un quadro non rischia ad ogni pennellata il fallimento, non conta nulla. Per quel che mi riguarda, poi, mi scandalizza soltanto ciò che non è scandaloso.

Siamo circondati, bombardati e travolti da ciò che alcuni ci dicono essere arte. Noi, incapaci ormai di distinguere il bello dal brutto, il bene dal male e il giusto dal malvagio, accettiamo ogni cosa. Se lo dice lui, che è esperto, sarà vero. Senza riflettere che è più plausibile l’ipotesi di un dio che ha creato il mondo e l’uomo piuttosto che quella di un critico d’arte che ci spieghi l’arte contemporanea. Assorbiamo senza giudicare, questo è l’inizio della fine. Perché l’arte non parla al cuore, né alle anime belle e poetiche – quelle sono carne da macello per critici-mattatori – ma ci stravolge, ci cambia lo sguardo, ci converte. In un saggio assai celebrato, dal titolo La mano del tintore, il poeta Wystan H. Auden riassumeva la questione del professionismo nell’arte così: “Agli occhi altrui si è poeti se si è scritta una bella poesia. Ai propri, lo si è solo nel momento in cui si danno gli ultimi tocchi a una poesia nuova. Un attimo prima si era ancora e soltanto un poeta in potenza; un attimo dopo si è uno che ha smesso di far poesia, forse per sempre”. Non c’è null’altro fuori da questo perpetuo, baluginante abisso. Chi crede di fare dell’arte una professione – e le professioni si ottengono sommando gradi su gradi, facendo levitare in qualche modo le quotazioni – ritagliandosi un misero cantuccio nella storia, in un’epoca in cui tutti possono studiare Prassitele o Michelangelo, Tiziano o Picasso, merita di essere lapidato.

L’arte non è innocente, e la ricerca di una nuova età dell’oro ha sempre provocato danni immani. L’innocenza non è alle nostre spalle, non si ricostruisce, semmai ci è davanti, si raggiunge presupponendo l’omicidio, il male, la perversione. Solo allora quella minima rosa nel vaso, appena accennata, avrà un senso miracoloso. Un mondo è passato, distrutto, e un altro, consecutivo, è in fiore.
Nel Diario di uno scrittore, pubblicato in concomitanza con la sua morte, e che radunava saggi, articoli, provocazioni scritte con penna arguta e acuminata nell’arco di un decennio, Fëdor Dostoevskij inserisce anche una manciata di racconti. Tra questi, spicca per densità drammatica e profetica Il sogno di un uomo ridicolo. Il testo raduna, condensati, un po’ tutti i temi forti di Dostoevskij, e s’incastra, essendo stato scritto a ridosso dei “Karamazov” e dopo L’adolescente, nella sua stagione ultima e limpida. La storia è quella di un “uomo del sottosuolo” che ha una intuizione drammatica: “al mondo ovunque tutto è indifferente”. Dacché ogni cosa equivale a un’altra, quest’uomo decide di uccidersi la sera stessa. Sennonché, sulla via di casa, incoccia in una bimba, allarmata, che richiede aiuto. Egli la scaccia con prepotenza, ma l’evento, misero e simbolico assieme, lo tormenta. Rapito nei suoi pensieri, desolato nella sua camera, l’uomo non si uccide ma sogna – siamo ancora e sempre in un mondo onirico, ma più reale della realtà. Sogna di essere “su una di quelle isole che formano l’arcipelago greco” (ricordate, l’Odissea?), circondato da uomini perfetti, che vivono in “una sorta di innamoramento reciproco, totale, generale”. L’uomo ridicolo fa esperienza dell’Eden, vede istoriata sulla plancia del sogno una nuova o antica era dell’oro. Eppure, la verità dell’uomo terrestre lo turba, lo ossessiona, non gli dà pace né scampo: “Sulla nostra terra noi possiamo amare veramente soltanto con sofferenza e attraverso la sofferenza! Noi non siamo capaci di amare in altro modo e non conosciamo altro amore. Io voglio la sofferenza, per amare”. Nel sogno, che si volge repentinamente da placido in inquieto, l’uomo ridicolo corrompe quella stirpe di puri di cuore, “come una cattiva trichina, come un atomo di peste che infetta nazioni intere, così io infettai tutta quella terra felice e innocente prima del mio arrivo”. L’Eden si snatura, ruota in cruda mota terrestre, e peggio ancora. Quando l’uomo si sveglia dal sogno, allucinato, comincia a profetizzare per le vie di Pietroburgo una verità lì da duemila anni ma pur sempre valida: “ama gli altri come te stesso, ecco la cosa principale, ed è tutto, non occorre proprio niente altro”. Ovviamente, gli uomini comuni prendono il nostro ridicolo per pazzo, per un delirante. Per un sognatore. Stringo nel polso il racconto, lo faccio ruggire. Non è forse quello che fanno i nostri ‘ingenui’? Profetizzano l’era dell’oro, per lo meno quella del sogno. Ed essendo dei signori ‘nessuno’, vengono scambiati per ridicoli, per pittori azzardati, infelici e infantili. Poco importa, ormai sappiamo che solo al ‘nessuno’ è concessa l’esplorazione millimetrica nelle regioni dell’ignoto e dell’imperlustrato, dell’imprevisto e dell’ignorato. Tutte cose che non possono essere catalogate in una speciale etichetta che faccia fieri i criticonzi dell’arte contemporanea, i galleristi-avvoltoi e gli artisti-faine. Meglio così. Ode ai signori ‘nessuno’ e ai ridicoli di ogni tempo. 
 
Nella vita, almeno per un attimo, tutti siamo stati Arthur Rimbaud. Ingenuo e feroce, radicale e assoluto, egli, assurdamente, è il simbolo della fanciullezza. In cui il sogno è plausibile, l’ignoto verificabile, lo sconfinato la garbata aiuola sotto casa. Rimbaud, il poeta bambino, è il padre e il paladino dei moderni neoprimitivi. In qualche modo, li identifica nella sua opera più alta e insolvibile, Une Saison en Enfer (1873), in particolare nella seconda porzione dei Délires. “Mi piacevano i dipinti idioti, soprapporte, addobbi, tele di saltimbanchi, insegne, miniature popolari; la letteratura fuori moda, latino di chiesa, libri erotici senza ortografia, romanzi delle bisnonne, racconti di fate, libretti per bambini, vecchie opere, ritornelli insulsi, ritmi ingenui”. Camera delle meraviglie all’opposto, di traverso, in cui splende il disusato e l’abusato, l’informe, il grottesco, il polveroso. Il Doganiere, mirando le tracce, le trecce che sbrecciano le sue mani, cerca di intercettare la propria sorte, che già Rimbaud il veggente gliela impiatta. Con beata frustata ai marchingegni stilosi, innocui, d’allora: “trovavo risibili le celebrità della pittura e della poesia moderna”. Il poeta dell’“estrema innocenza”, dell’ingenuità selvaggia, millenaria, ci dice già tutto, basta assecondarne le vie, serpentine e difformi. Occorre fare così, passeggiare intorno a questi quadri imbracciando il volume catastrofico e definitivo di Rimbaud. Come alchimisti che abbiano scoperto la pietra perfetta in grado di dare eternità al morituro. “Sognavo crociate, viaggi di scoperte di cui non è rimasta relazione, repubbliche senza storia, guerre di religione represse, rivoluzioni di costumi, spostamenti di razze e di continenti: credevo in tutti gli incantesimi”. Per rilevare e far esplodere l’incantesimo, fiammella che scaturisce frizionando gli occhi, è necessario lo sguardo, non innocente ma ingenuo. Il pittore marchiato dal mondo moderno, vacca da macello e da mungitura, ci introduce semmai in una forma raffinata del già noto. Eppure, l’inesplorato, l’insepolto appartengono al folle, al fanciullo, al dilettante. Che non si “diletta” perché il talento di stendere colori o versi o tocchi di scalpello gli scalda il cuore; al contrario, è l’istinto ferino, impossibile, che lo guida. Così che il segno, in verità, si muta in scavo, il gesto della penna o del pennello in graffio, dentata, pugnalata. Eccoci all’evento: come l’ominide brutale che incide per sempre la propria storia sulla parete, ampia e vigorosa come una tela.
Perlustrazione in Rimbaud. Nella lettera a Paul Demeny, datata “Charleville, 15 mai 1871”, specie di vulcanica, bizzosa dichiarazione di poesia, ci sono un paio di cose indimenticabili. Primo: Rimbaud fa piazza pulita di tutta la tradizione che lo precede. La studia, la ha amata, la getta nel baratro. L’arte puzza di marcio e, più che disincantata, è asservita alla mediocrità comune. Che cosa deve fare il poeta (o il pittore)? “Egli cerca la sua anima, l’indaga, la tenta, l’impara”. Infine, in scalata solitaria e privo di ramponi, “si fa ‘veggente’”. Fino a giungere lì, alle soglie dell’ignoto, ormai per tutti “il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto – e il Sommo Sapiente!”. Tolta qualche incrostazione da maledettismo Liberty, il punto è chiaro. Con “balzo attraverso le cose inaudite e innominabili” e un programma a ventiquattro carati: “enormità che diventa norma […] indagare l’invisibile e udire l’inaudito”. Il che vuol dire, disporsi per sempre al rischio, al balzo angelico e a quello che schianta la schiena, con la spina dorsale che s’incunea nel tombino simile a una vipera. Rimbaud non ci dà una lezione di stile (son passati i tempi del gigantismo infernale ormai museale e di facciata) ma di attitudine. Ci mostra la plancia e ci indica la qualità del tuffo. Incava il torso, rotea le braccia, volteggia le gambe, e l’azzurro, spianato come una pupilla, ti attende. Peraltro, quando si trovò a rincorrere il sogno, l’ignoto e quanto aveva già scritto, prevedendolo, a Rimbaud l’ex fanciullo andò malissimo. Papale ingresso nel delirio del mondo. Non scriverà più un verso, intraprende attività oniriche come il commerciante d’armi, l’avventuriero, infine il vagabondo. Genova, Cipro, Alessandria d’Egitto, poi Aden, Harar. Si spinge in luoghi africani mai esplorati prima da sguardo occidentale, europeo. 5 maggio 1884, da Aden, missiva destinata ai famigliari: “Che esistenza desolante conduco sotto questo clima assurdo e in queste condizioni insensate!”; “La mia vita qui è un vero incubo. Non vi figurereste mai come me la passo male. Lontano da lì: io stesso vedo sempre che è impossibile vivere più penosamente di me”. Il sogno, nel mondo, si fa crudo, impossibile. La vita è separata indicibilmente dall’arte. “Je est un autre”, io è un altro, scriveva perentoriamente Rimbaud al sodale Demeny, perché l’artista quando crea è sempre altrove, è sempre altrui. Quando volle essere se stesso, Rimbaud si smarrì.

Ingenuità all’italiana. È vero, il nostro “selvaggio”, in anni di cruciale primitivismo, è stato Dino Campana. Il folle, l’idiota, la magnetica bestia i cui Canti orfici equivalgono a un quadro di un “semplice”: tinte forti e pennellate dure, contorni nettissimi. Ambigua ma esemplare la sua storia, poi virata, malgrado lui, in leggenda: il matto viene disteso nel manicomio di Castel Pulci e lì marcirà, fino a morire, nel 1932. Ardengo Soffici non sopportava le irruenze del mefistofelico Campana, né la sua posa eccessiva da “maledetto”, eppure, nel 1911, scrisse uno scoppiettante profilo di Arthur Rimbaud. Eccolo a proposito della Stagione all’Inferno: “Che cosa sono qui il bene, il male, il bello, il brutto, la ragione, la pazzia? Non più categorie, non più leggi, non più freni. L’abisso freddo e tremendo abitato solo dal mistero. Ma mentre gli altri restavano a vagolare spauriti a pie’ di questo mostro piantato nelle tenebre, egli s’è fatto coraggio e s’è arrampicato lungo i suoi meandri fino a ritrovar la luce”. C’è da intravedere, in questa dantesca fuga, il percorso celeste e infernale dei “semplici”.
Eppure era stato già detto tutto. Il “fanciullino” di Giovanni Pascoli non è soltanto il bimbo che dentro di noi non vuol farsi grande, il Peter Pan di cartapesta che continua a svolazzare usando le nostre viscere come aquiloni o deltaplani. È lo spettro che ambisce al mondo del sogno – e perciò dell’attenzione desta, diurna – e rigetta le leggi mortali. “Egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare”. Pubblicato nel 1897 e compiuto nel 1902, Il fanciullino respira assieme a Mowgli e a Kim, assieme al Doganiere e assieme al bambino tremendo Kurtz. Si scavalca il secolo e gli artisti, disparati e dalla cima di diversi fari, sentono la pressione dei primordi. Esplode l’inconscio, vorticosamente, si studia il selvaggio. Ma ogni ‘primitivismo’ sorge quando il primitivo è già irraggiungibile, non più verificabile, come la cucina ‘della nonna’ che diventa business solo quando le nonne son morte da cent’anni. Siamo perduti, dicono gli artisti, salviamoci. Umberto Saba, il burbero poeta semplice, latrava ai quattro venti che “ai poeti resta da fare la poesia onesta”. L’onesto, il necessario. La poesia tersa, che lascia sgomenti e senza scampo, infrangibile, perfino intoccabile. Decisiva fin nella singola lettera alfabetica. Saba sapeva bene che la verità in letteratura chiede in cambio il sacrificio dell’artista. Ma non c’è alternativa per scampare allo sfascio dell’uomo che gioca a fare l’arte. L’arte non si gioca, si rischia. E la semplicità, per noi corrotti, si ottiene al prezzo di magistrali fallimenti, di percorsi ipertortuosi e di mastodontiche scavature.

Manca all’appello Cesare Pavese, che quest’anno, tiro da biliardo del caso, avrebbe compiuto cent’anni. Pavese l’ingenuo, che pagò tragicamente la propria ingenuità. E che per tutta una vita ha tentato la via del selvaggio, del Gauguin della letteratura. Amava gli americani, Pavese, tanto da averli tradotti e impiattati per i nostri occhi. Herman Melville e Sherwood Anderson, Walt Whitman e William Faulkner. D’altro lato, adorava i greci antichi con devozione furente e didattica, saldata per sempre nel libro a lui più caro, i Dialoghi con Leucò. Oltreoceano Pavese cercava l’ingenuità smarrita, le «sensibilità nude e primordiali», i colori aspri, vividi, intoccati, come il Gauguin che fugge la città per i paradisi tropicali e disumani delle Samoa; in Grecia la fanciullezza del pensiero, la prima, involuta età del mondo. Chi legge Il mestiere di vivere, il drastico, drammatico zibaldone di Pavese, non si stupirà nel rivedere il ‘fanciullino’: “L’infanzia non conta naturalisticamente, ma come occasione al battesimo delle cose, battesimo che ci insegna a commuoverci davanti a ciò che abbiamo battezzato. A qualunque età possiamo battezzare. Ma occorre essere tanto ingenui da credere che questa trasfigurazione sia la conoscenza oggettiva. Per questo di solito l’infante ci riesce” (15 giugno 1943). Pavese l’ingenuo, che tenta il naïf nel romanzo, con La luna e i falò, per esempio, o con le poesie, volutamente sghembe, antiretoriche, schive. “Dov’è l’interesse per il selvaggio, che pure t’incute?”, si domanda Pavese l’ingenuo, che poi ci consegna, per tocchi, una lezione di storia della letteratura: “L’arte del Novecento batte tutta sul selvaggio. Prima come argomenti (Kipling, D’Annunzio ecc.), poi come forma (Joyce, Picasso ecc.). Leopardi con le illusioni poetiche giovanili ha vagheggiato questo selvaggio, come forma psicologica. […] Il selvaggio t’interessa come mistero, non come brutalità storica. […] Selvaggio vuol dire mistero, possibilità aperta” (10 luglio 1947). In fondo, l’artista, grande o modesto, eccellente o casalingo, è sempre selvaggio, ingenuo e feroce. L’artista è sempre Mowgli. Altrimenti, molto semplicemente, non è artista. Piuttosto, chiamatelo showman, o portaborse.

Ancora Cesare Pavese. La sua passione per il primordiale e il selvaggio dà frutti editorialmente muscolari. Nel 1947 vara per Einaudi, con la collaborazione di Ernesto de Martino, la “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici”; nel 1948 legge e legalizza le prime traduzioni da Omero di Rosa Calzecchi Onesti (“un lavoro da fare tremare i precordi”, le scriverà), traduce la Teogonia di Esiodo. In quegli anni, Pavese si appassiona alle esplorazioni accademiche del geniale storico delle religioni Raffaele Pettazzoni. Costui, per gli ‘avversari’ della Utet, compila un’antologia titanica di Miti e leggende (1947-1963) del mondo (nel terzo volume, destinato all’America Settentrionale, viene omaggiata, tra gli artisti che “per primi hanno sentito il fascino e il richiamo di queste forme arcaiche”, “l’esperienza e la testimonianza di un umanissimo poeta, Cesare Pavese”). In qualche modo la selvaggia saggezza dei ‘primitivi’ ottiene la laurea. Ciò che dice il Pettazzoni a proposito della “forza arcana e possente” del mito, del racconto ancestrale delle origini, la cui verità “non è di ordine logico; nemmeno è di ordine storico: è, soprattutto, di ordine religioso, e più specialmente magico”, vale, con le regolari differenze, per i ‘semplici’. I quali, come sappiamo, antepongono alla storia il sogno, alla ragione il ragionevole delirio, l’ossimoro. Accogliamo il pensiero del savio Pettazzoni: “Verrà un giorno in cui anche i miti delle origini perderanno la loro ‘verità’ e diverranno a lor volta ‘storie false’, ossia favole – e ciò sarà quando anche il loro mondo, costituitosi sulle rovine del primo, andrà a sua volta in frantumi per dar luogo ad una ulteriore formazione diversa. Così infatti procede la storia, per successive disgregazioni e reintegrazioni, dissolvimenti e rinascite, nella perenne alternativa del vivere e del morire”. E se questi quadri, semplici e primordiali, netti e impietosi, non risvegliassero un mondo perduto – quello lo fanno gli accademici – ma preparassero le origini di un mondo nuovo? 

Bizzarria della storia e della cultura, che provo a segnalare così. Il moralista viennese Sigmund Freud, che si può dire abbia informato di sé l’intero Novecento, ci ha spiegato due cose. Che l’uomo è una malattia (il concetto gli giunge per direttissima da Nietzsche: “una di queste malattie della terra si chiama, per esempio, uomo”) e che l’uomo è un sognatore. Anzi, che forse la verità dell’uomo la si ricava proprio studiando i suoi sogni. In realtà, l’essere che deambula giornalmente per le vie del mondo non è che un calco, imperfetto e statico, estratto da quella materia volubile e complessa. Come si sa, lo smascheratore Freud utilizzò i propri saperi per scavare nelle nevrosi e nei miti dei popoli dei primordi, dei selvaggi moderni, ricavandone un volume di successo, Totem e tabù (1912). Paul Valéry, che in qualche modo anticipa le risposte e gli inquieti interrogativi di Freud, ci rivela, dalla matassa baluginante e insolvibile dei suoi Cahiers, una verità impossibile: “C’è qualcosa di terribile nell’essere ciò che si è. Se io è qualcosa, esso è niente”. Fate dialogare questo assioma, imperdonabile e imperdibile, con quanto detto a proposito di Odisseo e di Rimbaud. Risolveremo l’enigma dei “nessuno” così: ogni vero, grande artista è sempre e comunque un “nessuno”. Pena la squalifica dell’opera.

Lezioni evangeliche. Come si sa, si giunge al Padre attraverso il Figlio, in fondo tornando fanciulli. Più che un ritorno, una conquista. Non c’è nessun Eden da raggiungere, ma una vita da vivere. Con uno sguardo che setaccia, attento, particolare, impietoso. I bambini sono impietosi perché non distinguono il bene dal male. Proprio per questo, l’attimo dopo aver accusato, sanno perdonare. “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli. Chi dunque si farà piccolo come questo fanciullo, questi sarà il più grande nel regno dei cieli” (Mt 18, 3-4). Questo dice Gesù, con perpetuo, drammatico sbilanciamento dei piani comuni, per cui il piccolo è in verità l’altissimo, il povero il ricco, l’ignorante il sapiente. Come se tutto il mondo si convertisse. Ecco, convertirsi. Convertire dopo tutto significa ruotare, svoltare, cambiare rotta e marcia. Torna Rimbaud: “La scienza, nuova nobiltà! Il progresso. Il mondo cammina! Perché mai non dovrebbe svoltare?”. Non c’è malinconia nelle parole di Gesù, nessun ritorno al passato in un pensiero teso costantemente a oltrevarcare i paradossi, spinto alle estremità dell’accettabile. Si diventa bambini essendo adulti. Anzi, l’adultità, la saggezza, è fanciulla. Perché il giudizio è semplice, spoglio, netto. Impietoso, sì. Ingenuo e feroce. I Vangeli sono pieni di bambini, Gesù ama farsi assediare da loro, con loro il dialogo è teso, depurato (“Allora gli furono portati dei bambini affinché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli li sgridavano. Gesù però disse: ‘Lasciate, non impedite che i bambini vengano a me, poiché di essi è il regno dei cieli’” (Mt 19, 13-14); “Quindi, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e stringendolo fra le braccia disse loro: ‘Chi accoglie uno di questi bambini in nome mio accoglie me e chi accoglie me non accoglie me, ma colui che mi ha mandato’” (Mc 9, 36-37). Bambini e donne affollano i Vangeli. Le creature marginali, ignote, deboli. Ma è tutta apparenza. Perché il debole, in realtà, è il più forte.
Paolo di Tarso, come al solito, complica le cose. “Fratelli, non comportatevi da bambini nel giudicare, siate fanciulli quanto a malizia ma adulti nei giudizi” (1 Cor 14, 20). L’adulto è smaliziato, e forse per questo è savio, cioè discerne il bene dal male. Il bambino è innocente, ma anche impulsivo, gli sfuggono i contorni delle cose. La prospettiva, sgranata, cambia. Gesù parla del regno dei cieli, in cui concetti come bene e male, giusto e ingiusto sono superficiali, inutili; Paolo, oratore infallibile, organizzatore sublime, si riferisce al mondo degli uomini, in cui i bambini debbono essere educati, sono facili prede. Stringi stringi, esaltando diabolicamente i versetti biblici cosa mi assilla? Che l’artista, costantemente di fronte alla scelta – cosa raffigura, con quali colori, attraverso quali tecniche, che cosa vuole significare… – deve convertirsi. Bambino e selvaggio, piccolo, spaventoso Mowgli che si aggira tra le aule barbaglianti degli atelier di grido, ululando. L’arte fa spavento, atterrisce. Una rosa dai petali aperti, simili a mille millenari volti, nel suo vaso appena stuzzicato dal pennello. Intorno il vuoto, monastico. Non serve altro. I mercanti-avvoltoi dell’arte, che rivendono e propinano carcasse, che volino altrove.  

Shere Khan ha la testa memorabile e gigantesca della tigre di Antonio Ligabue. È ‘tuttabocca’, rossa ed esorbitante, con la lingua che assomiglia all’architettura alare di un angelo. I denti, bianchissimi, cadono e s’incrociano come un rosario, gli occhi a mala pena si vedono, scompaiono dietro il naso, i baffi, le striature complesse e cabalistiche. Shere Khan è il male, violento, e Mowgli, per diventare creatura, deve ucciderla. Altrimenti, è destinato a restare spettro inerme, sogno abortito o appena abbozzato. Ma la caccia grandiosa è quella contro il dhole, il Cane rosso, come è chiamato il racconto più grave e ferino dei Libri della giungla. Il dhole, figura dell’avidità incontrastata e della fame impietosa, attacca in branchi incalcolabili. Attraversa la giungla e la squassa, la esaurisce, consumandola, e non c’è bestia che possa opporsi a questa piaga biblica, assalto delle locuste e pioggia di fuoco assieme. Ma Mowgli, l’artista selvaggio, il bambino bestia, che può essere ogni cosa non appartenendo a nulla (“Mowgli il Ranocchio sono stato, Mowgli il Lupo ho detto di essere. Ora dovrò essere Mowgli la Scimmia prima di diventare Mowgli il Cervo. E da ultimo sarò Mowgli l’Uomo”) riesce nell’incredibile, affronta e doma l’impossibile. Grazie all’astuzia, ma soprattutto alla capacità di parlare e di persuadere tutti gli animali, senza distinzioni di clan – Mowgli è tutti e nessuno – il bambino silvestre disperde il branco dei dhole, anzi, lo annienta. “Tu sei in tutto e per tutto uomo, altrimenti il Branco sarebbe fuggito davanti ai dhole”, gli ripete Akela, l’antico capolupo, morente. “Mowgli costringerà Mowgli. Torna dal tuo popolo. Va’ dall’uomo”, conclude la bestia. Il mondo dei sogni, magnifici e terrificanti, sublimi e selvaggi, si occlude, albeggia quello degli uomini. Eppure, sconsideratamente, con la furia felice degli ingenui, i nostri ‘primitivi’, pittori del sogno e della giungla, restano pur sempre sul valico. Tra il villaggio degli umani e il covo dei feroci. Ancora, orgogliosamente dei ‘nessuno’, perché come Mowgli possono essere ogni cosa, la tesi e l’antitesi, il concetto e il proprio opposto, l’arma superiore e il modo per disinnescarla – e i dhole, per caso, non vi ricordano la pulsione viscerale e stomachevole, disperata di certi negrieri dell’arte contemporanea? Dopo tutto, come sussurrava Norman O. Brown in cima al decisivo Love’s Body (1990), “Almeno nella vita dello spirito, le avventure andrebbero portate fino in fondo”.    

L’unica certezza è che siamo mortali, che invecchiamo, che le cose, anche i segni più duraturi e granitici, sono destinate a liquefarsi. Che cosa riassume la nostra vita? La somma dei nostri atti, delle nostre scelte, delle nostre opere? È troppo poco, e in fondo, siamo un desiderio. Sporgiamo verso di esso. Siamo sempre l’ultima cosa che stiamo facendo, l’ultimo oggetto che vorremmo contemplare, l’opera magnetica che attende di giustificarsi in uno scritto o su un quadro. Perfino, potremmo sacrificare tutto ciò che siamo stati per un volto ignoto, una fuga imprevista, un implausibile e imperdonabile sogno. In fondo, il sogno e l’impossibile costituiscono la nostra armatura di uomini. Per questo la mostra a cui assistete, il gesto, è un pugno. Nella bocca degli inferi e del mondo. Un atto, ecco cos’è questa mostra. Un appello. Perentorio e senza scampo. O di qui o di là. O con noi o contro di noi. Un colpo storico e politico. Per cambiare il mondo o distruggerlo platealmente, con una stele in cima. Tutti salvi, o nessuno.

Davide Brullo

1 Commento a “Il Mio Nome è Nessuno”

  1. Hector&Hector scrive:

    Ciao Momò,

    bravo è sempre meglio essere nessuno che qualcuno che non vale niente.

    Oggi l’arte non è più bellezza, estasi, armonia, ma eventi seriali per diventare famosi e guadagnare soldi a palate bisogna ripetersi all’infinito a tal punto che la gente dirà: quello lo conosco è l’artista dei limoni e giù a fare limoni per tutta la vita.

    Gli artisti quelli veri hanno il compito di farci sognare, di rendere il nostro viaggio terreno più dolce, di farci riflettere sulla nostra esistenza. Questi artisti non hanno nessun prezzo e ci faranno sempre commuovere perche sono così pieni d’amore che quando l’incontri non vorresti più lasciarli andare via.

    Un abbraccio forte forte a tutta la Sicilia terra magnifica e a tutto il sud italiano,

    Hector&Hector

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