SENZA PAROLE
16 Marzo 2007


ameriCani
UCCIDI UN UOMO E SEI UN ASSASSINO.
UCCIDINE MILIONI E SEI UN CONQUISTATORE.
UCCIDILI TUTTI E SEI DIO
Hanno ucciso George Bush
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In uscita il 16 marzo il fanta-documentario inglese sull’omicidio del presidente Usa. Il regista: «Parto dal futuro per raccontare le cose agghiaccianti successe negli ultimi sei anni» |
Oggi, 19 ottobre 2007 poco prima delle nove di sera, davanti all’hotel Sheraton di Chicago il presidente degli Stati Uniti George Walker Bush è stato colpito a morte da due proiettili sparati dalla finestra dell’edificio di fronte. Trasportato precipitosamente in ospedale, è stato sottoposto a un intervento per fermare l’emorragia causata dalla recisione dell’aorta, ma i medici non sono riusciti a impedirne il decesso avvenuto attorno all’una e mezza di notte.
È questo l’evento che dà il titolo a Death of a president, il film dell’inglese Gabriel Range che, nella forma del fanta-documentario, racconta a posteriori (è ambientato nel 2008) la serie di eventi che portò all’omicidio di Bush e le sue conseguenze.
«Ho voluto usare la lente del futuro per interpretare il presente - racconta Range -. Già in passato avevo usato la formula del documentario realizzato nel futuro per esaminare la realtà attuale: dopo pochi minuti, come in questo caso, ci si dimentica che le cose che si vedono non sono accadute e si riesce a riflettere sul presente».
Un presente nel quale il presidente Usa affronta una pesante contestazione a Chigago a causa del conflitto in Iraq e dell’atteggiamento provocatorio verso Iran e Corea del Nord, che sfocia in un vero e proprio assedio all’albergo nel quale è chiamato a tenere un discorso. Tutto fila liscio, tra le preoccupazioni dei servizi segreti, finché Bush non esce e viene ucciso da due proiettili mentre saluta la folla. Il suo posto viene prontamente preso dal vice Cheney, che dapprima minaccia ritorsioni contro la Siria (fantasiosamente indicata come responsabile indiretta del misfatto) e poi instaura uno stato di polizia nel Paese con un inasprimento del Patrioct Act. A farne le spese un ragazzo siriano, colpevole solamente di essere passato nel posto sbagliato al momento sbagliato, d’essere musulmano e aver fatto in passato un viaggio in Pakistan.
La verità sull’assassino però è ben diversa e difficile da accettare per l’amministrazione dei "falchi": la morte del presidente dipende infatti in gran parte da quel che lui ha deciso in vita. Ed è per (di)mostrare questo che Range ha realizzato, con una magistrale mescolanza di immagini reali (il funerale di Bush è quello di Ronald Regan), riprese ritoccate, interviste recitate e inquadrature girate ad hoc con ogni mezzo (dalla cinepresa fissa ai videofonini, dalle telecamere di sorveglianza alla camera a mano), un verosimile e tesissimo documentario di finzione. «Il valore del film è nella sensazione di realismo, dopo cinque minuti si scorda che è tutto falso. Ma era necessario mostrare l’uccisione di Bush come una metafora dell’11 settembre per verificare come reagiremmo a quella notizia».
In America non molto bene, in verità: «La Fox, cui ovviamente non sto simpatico, mi ha accusato di distorsione della realtà e di irresponsabilità… ma se loro lo fanno tutti i giorni! Hillary Clinton ha definito il film "malato, morboso e disprezzabile" senza neppure vederlo: pensava fosse un incoraggiamento a uccidere davvero Bush. Sapevo che gli Usa sarebbero stati il mercato più duro, ma molte persone che ho incontrato mi hanno espresso la propria disillusione e rabbia per essere stati ingannati sull’Iraq. E poi a me interssava dare un punto di vista diverso, dire che negli ultimi sei anni sono successe cose incredibili e raggelanti».
Range spera però che il futuro, quello vero, sarà migliore: «C’è posto per l’ottimismo, fino a poco tempo fa erano inconcepibili le ammissioni di errori che ci sono state ultimamente. Ma capisco anche la paura e la scaramanzia di voi italiani: mi hanno spiegato che per voi, se si fa vedere la morte di qualcuno, gli si allunga la vita…».Emanuele Benvenuti
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ma il cielo e l’inferno sono anche dentro di noi
Ecco, dunque, il punto. Bush guarda da un binocolo chiuso. Bush NON vuole vedere. Non gli interessa sapere se esiste una verità. La SUA verità la vede anche con i tappi. Non ha bisogno di toglierli.
Le ciniche parole pronunciate dal Generale Patton nel 1944:
"voglio che vi ricordiate che nessun bastardo ha mai vinto la guerra morendo per la sua patria.
Vinci la guerra se obblighi l’altro povero bastardo a morire per la sua".
Ci saranno calendari, scadenze, paletti, obiettivi per l’America e i suoi satrapi iracheni. Ma la guerra contro il terrore si può ancora vincere. La spunteremo. Vittoria o morte. E morte sarà.
L’annuncio di ieri mattina del presidente Bush ha fatto rintoccare tutte le campane. Un altro miliardo di dollari di aiuti all’Iraq, un diario dei futuri successi mentre i poteri sciiti dell’Iraq - che dobbiamo ancora chiamare il «governo democraticamente eletto» - marciano a ranghi serrati con i migliori uomini e le migliori donne dell’America per ripristinare l’ordine e instillare la paura nei cuori dei membri di al Qaeda.
Ci vorrà tempo - oh sì, ci vorranno anni, almeno tre secondo quanto ha detto questa settimana il comandante sul campo, il generale Raymond Odierno - ma la missione sarà compiuta.
Missione compiuta. Non era lo stesso ritornello di quattro anni fa su una portaerei al largo delle coste della California con Bush che parlava sul ponte con la tuta di volo? E pochi mesi dopo il presidente aveva un messaggio per Osama bin Laden e per gli insorti iracheni. «Fatevi sotto!», urlò. E si sono fatti sotto.
Pochi hanno prestato attenzione al fatto che alla fine dell’anno passato i leader islamisti di questa ferocissima ribellione araba hanno proclamato Bush criminale di guerra e gli hanno chiesto di non ritirare le truppe. «Non ne abbiamo ancora uccisi abbastanza», diceva la loro dichiarazione registrata su un video.
Ora avranno l’occasione che aspettavano. Ironia della sorte ha voluto che sia stato proprio l’orribile Saddam, apparso persino dignitoso in mezzo alla gentaglia che lo ha linciato, a dire sul patibolo la verità che Bush e Blair non osano dire: che l’Iraq è diventato un «inferno».
È di rigore, in questi giorni, ricordare il Vietnam, le false vittorie, il conto dei caduti, le torture e gli assassini - ma la storia è piena di uomini potenti convinti di poter raggiungere la vittoria contro ogni previsione. Viene in mente Napoleone. Non l’imperatore ritiratosi da Mosca, ma l’uomo che era convinto di poter liquidare i guerriglieri della Spagna occupata dai francesi. Li fece torturare, giustiziare, fece installare un governo spagnolo retto da un personaggio alla Quisling e alla al-Maliki. Giustamente accusò i suoi nemici - Moore e Wellington - di appoggiare gli insorti. E quando era ormai prossimo alla sconfitta, Napoleone prese la personale decisione di «rilanciare la macchina da guerra» e avanzò per riconquistare Madrid così come ora Bush intende riconquistare Baghdad. Naturalmente finì in un disastro due anni dopo. E George Bush non è Napoleone Bonaparte.
«La sola cosa che impariamo dalla storia è che non impariamo nulla dalla storia».
Il miracolo USA in Irak:
la moltiplicazione delle guerre e dei morti.
Ora ci troviamo di fronte invece a un’impresa moderna, ben progettata e realizzata in pochi anni, merito esclusivo del Commander in Chief che siede alla Casa Bianca. Complimenti vivissimi.
Ma solo poche ore prima delle illuminate e geniali parole di Gates, i 16 servizi segreti americani avevano divulgato un rapporto che metteva a nudo la crisi irachena in tutta la sua gravità e complessità e che con molti equilibrismi linguistici svelava "che il termine ‘guerra civile’ non rappresenta adeguatamente la complessità del conflitto in Iraq. Tuttavia, il termine ‘guerra civile’ descrive accuratamente elementi chiave del conflitto iracheno, compreso il rafforzamento delle identita’ etno-settarie, un cambiamento epocale nel carattere delle violenze, una mobilitazione etno-settaria e la fuga della popolazione dalle proprie case".
Mentre sulle operazioni militari americane i servizi confermano che se non s’invertirà subito la rotta fermando gli scontri tra sciiti e sunniti"la situazione nel campo della sicurezza continuerà a deteriorarsi nei prossimi 12-18 mesi a un ritmo comparabile a quello della fine del 2006".
Però, ovviamente, per i servizi d’intelligence Usa le potenzialità militari degli Usa e della coalizione "rimangono un elemento essenziale, compresi la consistenza numerica delle truppe, le risorse messe a loro disposizione e la prosecuzione delle operazioni di sicurezza. Un rapido ritiro avrebbe conseguenze pericolose, con violenze ancora maggiori".
Quindi come al solito si prende atto che la situazione è disastrosa e peggiorerà molto probabilmente nei prossimi mesi, ma non ci si può ritirare perché altrimenti la situazione peggiorerà. Un ragionamento tragicomico, un po’ come dire mentre si sta correndo in auto "Stiamo andando a schiantarci contro un muro però proseguiamo dritto ugualmente perché altrimenti usciamo fuori strada e rompiamo il semiasse"…. Purtroppo però non è affatto una novità, è un ritornello vecchio e stantio che ormai conosciamo a memoria.
All’amministrazione Bush comunque non è piaciuto affatto che i servizi abbiano usato il termine "guerra civile" e infatti l’ex della Cia Gates ha immediatamente replicato dichiarandosi in disaccordo sull’uso della definizione "guerra civile" per caratterizzare la violenza che insanguina l’Iraq affermando che "non e’ una questione semantica". Ma lo ritiene "il risultato di una semplificazione eccessiva che non rende l’idea della complessità di quanto sta accadendo in Iraq". Ok, ci crediamo..non è una questione semantica; ma Gates o Bush dicano al mondo allora come si deve definire altrimenti una situazione in cui iracheni ammazzano altri iracheni quotidianamente, magari scopriremo finalmente il neologismo che tutto il mondo anela di conoscere. Ma Gates forse ha già risolto la questione dicendo semplicemente che "in Iraq non c’è una guerra civile ma ci sono quattro guerre"…et voilà.
Nel frattempo i soldati Usa ammazzati in Iraq sono quasi 3100; ma questa è un’altra guerra, la quinta..
di Enrico Sabatino
Il rafforzamento della presenza militare Usa in Iraq annunciata da Bush viene a ricordarci una regola spesso ignorata: è molto più difficile chiudere una guerra che scatenarla.
E se dopo che l’hai scatenata pensando possa trattarsi di una guerra-lampo scopri che invece si trattava di una guerra-sbagliata, allora venirne fuori salvando la faccia e tutelando gli interessi nazionali diventa impresa proibitiva.
Perché una guerra sai come comincia e non sai come finisce.